#25. A Mostar tra ponti, minareti e musica
Con una puntatina a Tuzla e una ad Atene. Oggi c'è anche l'ospite: Samantha Colombo ci racconta un luogo
Ci tuffiamo dallo Stari Most, ma con un film; poi viaggiamo verso Trieste lasciandoci Tuzla alle spalle; ascoltiamo l’adhān lungo la Neretva. Esploriamo anche alcuni libri (e un podcast). Infine ci fermiamo ad Atene, nella nuovissima moschea. Via, si parte!
Un luogo reale: il ponte di Mostar
Ci sono cose che so con assoluta certezza che non farò mai. Una di queste è tuffarmi dal ponte di Mostar. E da qualunque altro ponte al mondo, se è per questo. I tuffi in generale mi generano una certa ansia, sia farli che vederli. Ma i tuffi dal ponte di Mostar non sono solo tuffi. Sono storia. Sono nostalgia e identità, sono sia memoria che voglia di futuro.
In qualunque giorno capiti a Mostar, può accadere di vedere qualcuno volare giù dal ponte fino all’acqua. Per molti (tuffatori inclusi) è diventata un’attrazione turistica. A me mozza il fiato. Mi dice quanto vivo sia ancora questo luogo, nonostante sia stato distrutto, ricostruito, abbia unito e abbia diviso. Nonostante sia diventato un simbolo e come molti simboli abbia rischiato di svuotarsi di significato.
Mi ha confermato le mie impressioni anche il documentario I tuffatori di Daniele Babbo (qui puoi leggere un’intervista di Veronica Tosetti su Linkiesta). Il regista ha vissuto con loro per settimane, ne ha seguito le prodezze e ha ascoltato i loro racconti, dai più spacconi ai più dolorosi. Sì, anche quelli della guerra. Purtroppo al momento il film non è disponibile su nessuna piattaforma di streaming, io l’avevo visto durante il Trieste Film Festival. Però qui trovi un trailer.
Un luogo immaginario: lasciare Tuzla
Tuzla è un luogo reale, ma io non ci sono mai stata. Me l’ha raccontata un viaggiatore conosciuto per caso a bordo di un autobus, durante una traversata del Carso.
Non affronto mai un lungo viaggio senza un libro o le cuffie, ma ci sono viaggi che - lo percepisco appena metto piede sul mezzo - saranno fatti di racconti a viva voce. Me ne rendo conto quando incrocio gli sguardi degli altri viaggiatori, capto frammenti di storie dai loro discorsi o divento bersaglio della loro curiosità. Di me racconto sempre a fatica, tranne che in viaggio. Raccontarsi è uno scambio, chi mi ascolta capisce subito quanto sono disposta a dare, quanto sono pronta a ricevere. E decide se affidarmi il suo racconto.
Deve averlo capito anche Ajdin, bosniaco che si presenta come jugoslavo ed è in viaggio verso casa. Siamo diretti a Trieste. Per me una tappa di un viaggio più lungo che ha attraversato la Slovenia. Per lui il posto che oggi chiama casa.
Nei Balcani più che altrove mi è capitato tante volte di sedere accanto a sconosciuti e venire a sapere la loro vita. Finiamo a parlare della guerra e della fuga. Di quella volta che fu punito per aver nascosto in casa sua un vicino e amico che improvvisamente doveva essere il nemico. Mi mostra una ferita alla spalla, vicino al collo. Gli trema la voce quando racconta il momento in cui lasciò a Tuzla la sua casa e i suoi morti e ogni cosa perse significato. Per me sono passati 29 anni, per lui è appena successo.
Bisognò ricominciare da capo, altrove, sentirsi dare dello straniero con disprezzo. Per anni, e a volte ancora adesso. Me lo dice sorridendo ma è un sorriso amarissimo. Parla un italiano perfetto ma dentro mette spesso parole bosniache, poi me le traduce. Gli piace sentirsi in bocca il sapore della sua lingua. Certe parole le ripeto anch’io, per assaggiarle.
Il sole sta tramontando e il viaggio sta finendo, è sembrato brevissimo. Poco prima di scendere scatto una foto dal finestrino per ricordarmi questo momento e questo incontro. Viene un po’ mossa, il bus ancora corre, ma non importa. Sotto un cielo così bello quanta disperazione c’è.
Un luogo di Samantha Colombo: la sevdah della luna piena
scrive , una newsletter sui paesaggi sonori che esplora i legami tra musica e natura e il potere trasformativo delle note.È la melodia dell’adhān ad accoglierci.
La chiamata alla preghiera del tramonto, ṣalāt al-maghrib, filtra metallica dagli altoparlanti della vicina moschea, mentre i miei compagni di viaggio e io scendiamo dal bus. Ci accompagna nei pochi passi verso la nostra casa, una villetta dal giardino disordinato, protetto da un muro sforacchiato dai proiettili, sulle rive della Neretva.
Il primo ricordo che ho di una terra dalla bellezza travolgente, tanto da oscurare i giorni precedenti, è proprio l’adhān: sacro per i credenti, custodisce un fascino e una potenza in grado di rapire chiunque, in qualunque istante.
In molti ci hanno consigliato di sostare a Mostar solo un pomeriggio, una notte al massimo, giusto il tempo di dare un occhio allo Stari Most, il ponte simbolo di una guerra atroce, e passeggiare per le strade acciottolate del centro. Eppure la città si trasforma ben presto in un rifugio, un punto strategico per visitare i dintorni prima di saltare sul treno dell’alba per Sarajevo; un luogo dove ascoltare racconti e imprimere volti nella memoria.
Appena posati i bagagli, tra una chiacchiera e l’altra, veniamo a sapere dai padroni di casa del ritorno in città di alcuni amici musicisti, una band che, nei giorni successivi, si sarebbe esibita lì vicino, in una specie di centro sociale sorto tra rovine della guerra. Un’informazione annotata tra le tante, come un programma futuro, prima di uscire ignari di ciò che sarebbe presto accaduto.
Un canto si insinua nella stradina della città vecchia, facendosi sempre più vicino. La voce maschile, che intona una canzone in una lingua sconosciuta, chiama intorno a sé chiunque incontri; il rumore dei passi, le voci della folla scompaiono per lasciare posto al canto, al tintinnio dei tamburelli, agli accenti lucidi delle chitarre, ai battiti delle mani.
I musicisti, e noi con loro, procedono per le viuzze, sciamando in un lungo corteo fino alla moschea di Hadži-Kurt, dove l’antico minareto si staglia contro la luna piena. Qui inizia una festa improvvisata, tra persone del posto e altre provenienti da ogni parte del mondo, unite dal ritmo, dal ballo, da un guizzo di gioia negli occhi.
Lo scopriamo il giorno successivo: abbiamo incontrato i famosi amici dei proprietari di casa, meglio noti come i Mostar Sevdah Reunion, un gruppo rientrato nell’amata Mostar dopo un tour mondiale, e accolto con il dovuto affetto.
«Non so che canzone fosse» indago, «però a un certo punto tutti i bosniaci hanno cantato in coro». La risposta non prevede dubbi: si tratta di Cudna Jada Od Mostara Grada (più o meno Strana povera ragazza della città di Mostar), uno struggente inno d’amore.
Quella notte eravamo, tutte e tutti, parte di un attimo stupendo, un istante rubato al tempo e allo spazio, oggi incastonato nella memoria tra i ricordi più preziosi di sempre. Splendido come può essere ballare la sevdah, la musica che pulsa nel cuore della Bosnia, scalzi sugli antichi ciottoli, protetti dalla luna piena.
Un itinerario tra libri e podcast
La maggior parte dei libri sulla Bosnia che ho letto sono ambientati a Sarajevo ma intendo dedicare alla città una puntata intera e non ne parlerò qui. Comincio invece da Rumiz e dal suo Maschere per un massacro, perché lo lessi proprio in viaggio.
Di Rumiz ti segnalo questo articolo che racconta la distruzione del ponte di Mostar. La racconta pure un episodio del podcast di BarBalcani, che è anche una newsletter molto interessante e approfondita sull’area balcanica di ieri e di oggi.
Il coraggio e la follia di Enisa Bukvić è il diario di una donna che, dopo 25 anni in Italia, ha deciso di tornare a Mostar e ricostruire la vita-di-prima, affrontando le difficoltà di una città spaccata, corrotta, maschilista, ancora sanguinante ma sempre, irrimediabilmente poetica.
La Bosnia - e la sua storia dal Settecento a oggi, con il suo intreccio di culture, religioni, etnie, tra convivenze e conflitti - è la protagonista di I Karivan di Miljenko Jergović, una raccolta di brevi e brevissimi racconti che seguono le vicende di una famiglia.
I link ai libri di questa sezione sono affiliati. Se decidi di acquistarne uno io ricevo una piccola commissione mentre per te il prezzo è invariato. Uso i ricavi per acquistare altri libri da raccontarti e alimentare i viaggi in poltrona. Ma se decidi di andare nella libreria di quartiere sono contenta lo stesso.
Gita in Grecia: τζαμί της Αθήνας
Se si eccettuano le moschee sopravvissute dal periodo ottomano, non più in uso, Atene è stata per decenni la sola capitale europea priva di moschea, pur ospitando oltre 250.000 musulmani.
La prima moschea della città è stata inaugurata nel 2020 nel quartiere di Votanikòs - senza celebrazioni, con la scusa della pandemia. Il progetto risale al 2006 ma è stato ostacolato a lungo da mille polemiche, tra l’opposizione dell’estrema destra e l’ostruzionismo della chiesa ortodossa.
La maggior parte dei fondi ce l’ha messa la Turchia, il terreno invece lo ha concesso lo stato greco. La moschea si estende per 850 mq e può ospitare 350 persone. Nessun elemento di architettura islamica è visibile all’esterno: né minareti, cupole o decorazioni di sorta. Sobrio anche l’interno, con l’eccezione del miḥrāb di legno realizzato da un artigiano egiziano residente in Grecia e del tappeto azzurro, che proviene dall’Iran.
Ultime dal sito e dal podcast
Filakia è ripartito! La prima tappa del nuovo ciclo di episodi è un’antica cisterna nel cuore di Atene. 2000 anni dopo la sua costruzione, arriva ancora l’acqua tramite l’acquedotto romano voluto dell’imperatore Adriano. Si ascolta qui.
Su IoViaggioinPoltrona.it ho raccontato un libro greco, ho consigliato 5 podcast da ascoltare e ho messo sulla mappa Ritorno alle foreste sacre di Lorenzo Colantoni.
"Gli piace sentirsi in bocca il sapore della sua lingua". Che meraviglia 😍 bellissimo post!!
Che bella questa puntata a due voci! Mi avete emozionata entrambe moltissimo 💕