#22. Arbanasi, un villaggio bulgaro
E poi: un treno fra i Rodopi, letture in viaggio e il confine con la Grecia
La mia prima volta in Bulgaria è stato un lungo viaggio da cui è rimasta esclusa solo la costa sul Mar Nero, con l’idea di tornare un’altra volta. In Bulgaria poi ci sono effettivamente tornata qualche anno dopo, ma la costa è rimasta ancora una volta ignorata perché ho voluto fare un viaggio in treno fino alla Grecia, attraversando un confine. In questo numero ti racconto un brandello del primo viaggio e l’attraversamento di quella frontiera. E i libri che li hanno accompagnati.
Tutte le foto di questo numero sono mie.
Un luogo reale: Arbanasi
Arbanasi lo trovo in fiore una mattina d’Aprile, con il vento leggero che fa piovere piccolissimi petali bianchi dai rami. C’è il sole ma fa freddo perché arrivo molto presto. Sono a Veliko Tărnovo da qualche giorno, ho lasciato la valigia nell’appartamento che ho affittato a Sofia e sono partita con uno zainetto per esplorare questa parte della Bulgaria.
Scopro che non esiste un mezzo affidabile per arrivare al piccolo villaggio su in collina. C’è un bus che passa due volte al giorno ma non è detto. Magari lo prendo al ritorno. Sono solo 6 km e fantastico di arrivarci a piedi, poi vedo un taxi fermo sulla piazza e domando al conducente che fuma seduto sul cofano se è disposto ad accompagnarmi, eventualmente aspettarmi. Sì, mi ci porta, ma aspettarmi no. Caso mai posso telefonargli e torna a prendermi. All’arrivo mi mostra la fermata del bus. Sono due pali di legno con una tettoia di plastica, su uno dei due è inchiodato un foglio con gli orari scritti a mano, un po’ slavati dalla pioggia. Dovrebbe passarne uno a mezzogiorno. Se non passa chiamami - mi dà un numero fisso - e se non rispondo io chiedi di Petar.
Per esplorare il villaggio decido di andare a caso. Prendo a destra e costeggio un muretto di pietra chiara che dà su un frutteto. Ad Arbanasi vivono meno di 300 persone, c’è una quiete turbata appena dal ronzio di mille api e dal frusciare del vento. Lo hanno fondato cristiani arbëresh provenienti da sud verso la fine del XV secolo. Il nome deriva da arbanas che in bulgaro significa albanese. Un secolo dopo era un fiorente villaggio che beneficiava dei commerci all’interno dell’Impero Ottomano, soprattutto rame e oro. Qui si stabilirono ricche famiglie di mercanti che commerciavano in Transilvania, nei Principati danubiani, in Polonia e in Russia.
Una delle residenze si può visitare, è Casa Konstantsalieva. Era la dimora di un ricco mercante. È arredata in stile ottomano e ha persino un doppio bagno. Rudimentale, sì, ma così nessuno doveva fare la coda al mattino e soprattutto… non si doveva uscire in giardino, col freddo o di notte! Un vero lusso. Qui la famiglia viveva insieme alla servitù e agli animali, gestiva i traffici e immagazzinava pure la merce. C’è anche una stanza riservata alla puerpera che aveva appena dato alla luce un figlio, nella quale doveva restare isolata dal resto della famiglia per 40 giorni.
Nell’epoca d’oro di Arbanasi, tra il XVI e il XVII secolo, vennero edificate numerose chiese affrescate. Le visito tutte. Da fuori sono semplici edifici di pietra, quasi non si distinguono dalle case. Dentro è un tripudio di affreschi a tinte accese. La Chiesa della Natività sembra una galleria di storie: la sua navata unica è totalmente ricoperta da scene bibliche a colori vivaci. Potrei passarci ore e non notare tutti i dettagli. Il Monastero della Natività di Cristo si trova su una collinetta che offre anche una bellissima vista sulla valle. Ma è la Chiesa di San Nicola che mi lascia a bocca aperta, non solo per gli affreschi straordinariamente ben conservati ma anche per un’iconostasi di legno intagliato e decorato con lamine d’oro. Non è consentito scattare foto e non me ne rammarico. Mi concentro di più per imprimere i dettagli nella memoria anziché su uno schermo.
Nella Chiesa della Trasfigurazione di Cristo mi arrampico sulla torre campanaria per un altro punto di vista sulla campagna circostante: è verdissima, fiorita e baciata dal sole. Completo il giro con la Chiesa dei Santi Arcangeli Michele e Gabriele e dopo l’abbuffata di affreschi mi perdo tra le viuzze punteggiate da case-fortezza in stile Rinascenza bulgara, con il piano inferiore di pietra e quello superiore di legno. Le ho già viste a Plovdiv ma qui conservano un’aria più rustica. Poche sono restaurate, ma tutte sono ancora abitate.
Un luogo immaginario: in treno fra i Rodopi
Lascio Sofia che albeggia ma non si vede il cielo né si vede la città, è tutto avvolto nella nebbia. Lungo la via il biancore si arrenderà al sole, sfilacciandosi, ma per le prime due ore ogni cosa è velata. Mi arrendo presto anche io: le foto in corsa dal treno non le so fare e neanche voglio. Saranno solo gli occhi a registrare il paesaggio che scorre fuori dal finestrino, ancora invisibile ma presto svelato.
Sono su un treno sgangherato, rosso e crema, che corre verso sud e fa un gran rumore di ferraglia. Un suono che assorda ma anche culla. Chiacchierare su questo treno è impossibile e del resto io non so una parola di bulgaro, ho giusto imparato l’alfabeto per decifrare i cartelli delle indicazioni stradali e accertarmi che bus e treni su cui salgo vadano nella direzione giusta. A bordo siamo in pochi. Il treno è lunghissimo ma ho visto salire sì e no 10 persone.
Attraverso boschi nudi e neri, aggrappati a rocce scure e roride di umidità. Deve aver piovuto, stanotte. Ai loro piedi scorre il fiume. Il treno entra ed esce dalle montagne. Il nastro d’acqua le taglia a modo suo, a un altro ritmo. Per un lungo tratto la via ferrata scorre di fianco al fiume Struma/Струма, che per gli antichi (e ancora oggi per i greci) era Strimone/Στρυμόνας. Gli ottomani invece lo chiamavano Karasu, acqua nera. Le sue acque io le vedo bianche perché spumeggiano per tutto il tratto che seguo con lo sguardo.
A metà giornata sono in terra macedone, oltre tutti i confini imposti dagli uomini, che alla terra non importano. Il fiume li supera senza saperlo, così fanno le montagne, gli alberi, il cielo, gli animali che vivono in queste foreste. Solo gli uomini vi si aggrappano.
Gita in Grecia: il confine tra Bulgaria e Grecia
Attraverso il confine due volte, una ad andare e l’altra a tornare. Da qualche anno il treno internazionale che contavo di prendere non esiste più, tutti i treni bulgari si fermano alla stazione di confine e da lì ci si arrangia. Siccome mi sono fissata che questo viaggio devo farlo in treno, mi arrangio anche io.
Il capolinea è Кулата/Kulata. La stazione si trova a meno di un chilometro e mezzo dal posto di frontiera perciò vado a piedi. Fa un gran freddo, è fine novembre e in treno c’è una temperatura tropicale perciò quando scendo sento la faccia diventarmi di marmo. Aumento il passo per scaldarmi, arrivo in 15 minuti.
Salvo chi viaggia in auto, si passa a piedi. Anche i passeggeri dei bus sono invitati a scendere. Il mezzo passa vuoto e le persone vengono controllate una ad una. Mi sembra già insolito, finora a tutte le frontiere europee che ho attraversato in bus o treno era la polizia di frontiera che saliva, raccoglieva i passaporti, faceva un controllo veloce e ci lasciava ripartire. Stavolta no. Si crea una lunga coda. Tira una brutta aria.
Ogni persona deve entrare in un minuscolo ufficio ricavato da un container malamente riscaldato. C’è solo una stufetta elettrica puntata sui piedi del poliziotto che ti scruta da dietro una scrivania sbilenca, con un piede retto da un pezzo di legno. Confronta più volte la foto sul documento. Poi devo rispondere a un vero e proprio interrogatorio.
I poliziotti non sono ostili, ma sospettosi sì. Mi chiedono più volte la stessa cosa - da dove arrivo, che vado a fare in Grecia, perché, da dove riparto e quando. Mi danno l’impressione di farlo nel tentativo di avere una risposta diversa, come se non credessero alla prima. Com’è che per andare a Salonicco sei atterrata a Sofia? Perché costava solo 13 euro e volevo fare quel viaggio in treno. È la sola verità che ho, e la ripeto. Mi fanno aprire lo zaino, mi chiedono perché non abbia anche una valigia. Sembra strano che per un viaggio di tanti giorni basti uno zaino così piccolo. Di nuovo la stessa domanda posta molte volte. Insisto con la stessa risposta.
Mi sento a disagio. Non per me, tra pochi minuti sarà finita. Il mio passaporto è una chiave che apre, conosco il mio privilegio. Sono a disagio perché tra le persone in fila ho visto documenti più deboli del mio. Penso a chi viaggia per forza, per bisogno. Cosa prova davanti a questa porta chiusa, se anch’io mi sento schiacciata da una frontiera che so di poter attraversare?
Una volta superato il controllo bulgaro tocca a quello greco, a Προμαχώνας/Promachonas. Attraverso a piedi la terra di mezzo, è un breve tratto ma mi sento nel limbo. I greci non sono meno sospettosi ma i toni sono più distesi. In più parlo greco e vengo accolta con quello stupore che sempre, in Grecia, suscita scoprire che qualcuno si è preso la briga di imparare la loro lingua. Mi fanno le stesse domande dei colleghi bulgari ma si accontentano di una risposta sola. Meno male, qui il controllo si fa in piedi all’aperto, loro dietro una finestrella e io fuori, e sto gelando.
Prima di andare via chiedo informazioni su come arrivare a Serres. Ho trovato indizi vaghi sul web, pare che non esista alcun mezzo pubblico da qui. Come tutti i greci mai incontrati, si prodigano per aiutarmi. Una poliziotta si offre di accompagnarmi in auto a fine turno, ma finisce due ore dopo. No, grazie, σας ευχαριστώ πολύ.
Ormai intirizzita, mi fermo a mangiare al primo bar su suolo greco appena oltre i controlli e trovo un passaggio per la prima stazione utile, a 12 km. Da lì prenderò un treno per Serres, ci mette 50 minuti. Poi cambierò ancora per arrivare a Salonicco. Il tragitto è finito ma l’amarezza per la violenza della frontiera mi resta in bocca tutto il giorno. Un viaggio che era agevole, e si faceva con un solo treno senza difficoltà, negli ultimi anni è tornato a essere un puzzle da comporre pezzo a pezzo.
Al ritorno ho fatto lo stesso viaggio in bus e le cose sono state più semplici. L’autista ha fornito alla frontiera una lista di tutti i passeggeri e siamo stati controllati uno ad uno ma senza interrogatorio separato, questa volta. Solo qualche domanda veloce allo sportello. I greci mi hanno detto grazie per essere venuta, i bulgari mi hanno dato il benvenuto. Un’esperienza completamente diversa, appena 9 giorni dopo.
Un itinerario tra i libri: in Bulgaria tra le pagine
I miei libri contrassegnati con l’etichetta Bulgaria occupano uno scaffale intero e non è facile resistere alla tentazione di riportarli tutti. Ma mi dico che non ha senso l’approccio enciclopedico, voler esaurire tutto, è molto più sensato creare, con i libri, un percorso di viaggio. E come in ogni viaggio riservarsi la possibilità di tornare.
Fisica della malinconia di Georgi Gospodinov l’ho tenuto per mesi in attesa, dopo averlo acquistato. Aspettavo di leggerlo in viaggio attraverso il paese. L’ho iniziato su un traballante treno locale tra Kazanlăk e Sofia. Doveva metterci poco meno di 4 ore, ce ne mise 7. Non sono mai stata tanto contenta di un ritardo del treno. Il mezzo scandiva la lettura con la sua nenia attraversando mezza Bulgaria, io nel frattempo viaggiavo nella memoria di Gospodinov e in un’altra Bulgaria, la sua, personale e letteraria.
Anche La lingua salvata di Elias Canetti lo lessi durante quel viaggio, sfidando la cinetosi perché stavolta facevo in bus la tratta da Veliko Tărnovo a Ruse, città d’origine dello scrittore sul confine con la Romania. In questo libro, che è la prima parte della sua autobiografia, racconta proprio l’infanzia. La narrazione fa perno sulla lingua come identità e l’identità multipla di Canetti è un romanzo in sé.
A est dell’Occidente di Miroslav Penkov non l’ho letto in viaggio ma subito dopo. Sono racconti che esplorano la Bulgaria minore, quella di personaggi che non hanno lasciato traccia nella storia ma le cui storie non sono meno emblematiche. Mi è piaciuto anche scoprire che per l’autore, emigrato negli Stati Uniti, questo libro ha rappresentato un modo per tornare in Bulgaria riattraversando un confine che aveva scelto di superare - non mosso da necessità ma in cerca di nuove opportunità.
Il secondo viaggio in Bulgaria, quello della frontiera con la Grecia, l’ho fatto anche per colpa di Kapka Kassabova e del suo Confine. Ci sono decine di luoghi, storie e popoli che i suoi libri mi fanno venire voglia di andare a scoprire con i miei piedi, i miei occhi. Questo libro racconta il punto della frontiera che si fa triplice, dove si toccano Bulgaria, Grecia e Turchia.
L’ultimo libro bulgaro di questa breve selezione è La casa alla fine del mondo di Georgi Danailov, ambientato in un piccolo villaggio sui monti Rodopi. Sono racconti autobiografici che (ri)danno vita a una Bulgaria che non esiste più.
I link ai libri di questa sezione sono affiliati. Se decidi di acquistarne uno io ricevo una piccola commissione mentre per te il prezzo è invariato. Uso i ricavi per acquistare altri libri da raccontarti e alimentare i viaggi in poltrona. Ma se decidi di andare nella libreria di quartiere sono contenta lo stesso.
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e un libro greco che parla di partigiani e Peloponneso
Devo devo devo leggere Fisica della malinconia che possiedo da secoli. Ti prendo come una spinta gentile da parte dell'Universo dei Libri, olè
Leggere il tuo racconto del passaggio alla frontiera è stato intenso, mi ha fatto riflettere sulle (ingiuste) forze dei vari passaporti e su tutto quello che diceva Alexander Langer riguardo alle frontiere come luoghi di condivisione.
Georgi Gospodinov lo consiglio sempre anch'io, specie i suoi fulminanti racconti. Ho amato tanto "Cronorifugio", mentre "Fisica della malinconia" è lì che lampeggia da tempo sulla mensola coi libri Voland; so che arriverà il suo momento.
Grazie Sara per le rotte che riesci sempre a tracciare, soprattutto per chi come me non ha ancora girato così tanto come vorrebbe l'Europa.