Da isolana, e consapevole di esserlo sin da piccolissima, mi sono sempre chiesta come venisse percepita l’isola da chi non c’era natə eppure se ne sentiva attrattə. Ho scoperto con il tempo che alcune persone sono isolane per indole e vocazione, a prescindere dalle vicende geografiche. Oggi andiamo in Sardegna, isola-mondo, e la esploriamo con chi c’è natə e chi c’è statə e ci ha trovato quello che neanche sapeva di cercare.
Un luogo reale: Carloforte
Ho scoperto l’esistenza di Carloforte da un podcast che la descrive d’inverno. Si intitola Isole d’inverno, è di Graziano Graziani e lo trovi su RaiPlaySound. Quando l’ho ascoltato io c’erano quattro puntate, ora sono otto. Esplorano altrettante isole nella stagione in cui sono frequentate solo dagli abitanti, dal vento e dalle onde, eppure mai cessano di produrre storie.
Una di esse è Carloforte, o isola di San Pietro, nell'arcipelago del Sulcis vicino alla costa sud della Sardegna. Carloforte è il centro abitato, il solo dell’isola e perciò spesso usato come nome dell’isola intera.
Quello che mi ha colpito di più del racconto è il dialetto locale, il tabarchino, che si avvicina al ligure per vicende geografiche che spesso si intrecciano con le lingue. Ho fatto qualche ricerca scoprendo che lo portarono certi marinai genovesi (quasi tutti provenienti da Pegli) che prima di trasferirsi qui abitavano l’isola tunisina di Tabarca. All’isoletta vicino al confine con l’attuale Algeria erano arrivati nel 1542 per sfruttare i depositi di corallo. Vi rimasero fino al 1738 quando lasciarono l’isola - un po’ per l’esaurirsi dei coralli e un po’ per le tensioni con le popolazioni locali - e si trasferirono sulle isole di San Pietro e Sant’Antioco. A Tabarca c’è ancora un forte genovese. E il tabarchino si parla ancora nell’arcipelago sulcitano.
Un luogo immaginario: la Sardegna di Vittorini
Elio Vittorini sbarca a Olbia nel 1932 insieme ad altri scrittori su iniziativa della rivista settimanale L’Italia Letteraria che prometteva un premio di 5000 lire al miglior diario di viaggio in Sardegna. Della giuria faceva parte anche Grazia Deledda.
Vittorini, che allora aveva 24 anni e da poco si era trasferito a Firenze, partecipò con uno pseudonimo, Amok. E vinse, ex aequo con Virgilio Lilli. Alcune parti del testo uscirono su L’Italia Letteraria e altre riviste prima di diventare un volume, nel 1936 e ancora nel 1953, con il titolo che ha ora: Sardegna come un’infanzia.
Pur giovanissimo, all’epoca del viaggio Vittorini era consapevole della Sardegna narrata esistente già nella letteratura di viaggio precedente (tra gli altri c'erano stati e l’avevano raccontata Balzac, Valery, Lawrence). Il rischio di rientrare nel cliché percorrendo un solco già tracciato era alto. Ma lo scrittore non cadde nella trappola.
Scelse di raccontare la Sardegna non come un luogo ma come un tempo, quello dell'infanzia. Perciò procede per suggestioni, stati d'animo e paesaggi interiori e non vere e proprie descrizioni. Visita l'isola come se fosse un viaggio in un tempo perduto e lascia intendere che su quell'isola non si può più approdare. Ed è vero, perché la sua è una Sardegna letteraria, soggettiva e personale e nessun altro viaggiatore vivrà mai lo stesso luogo, ma il suo proprio. Quello di Vittorini non è uno sguardo neutrale (può mai esserlo lo sguardo di chi viaggia?) e non pretende di esserlo.
Ancora a bordo del piroscafo (lo chiama così) e poi durante i suoi giri a terra, si imbatte in paesaggi brulli, sonnolenti paesi, un mare che scintilla ovunque ti volti, persone e cose che impara a nominare per la prima volta, come un infante entusiasta di ogni scoperta, aperto e pronto a fondersi con il mondo. Così una cittadina pare “fabbricata sul dorso d’una foglia”, le lunghe gonne nere delle donne che scantonano somigliano a volpi in fuga e i bambini che giocano sono come “ciuffi d’alberi in un deserto”. Michela Murgia, nell'introduzione al volumetto ripubblicato da Bompiani nel 2014, lo chiama non un libro di viaggio ma un libro-viaggio, e io sono d’accordo.
Un luogo di Alessia Munari: ritorni in Sardegna
scrive una newsletter piena di mare, di musica e viaggi e qui racconta l’amore, che condividiamo, per un’isola e le sue isole.La mia Sardegna inizia verso la fine degli anni ottanta, quando i miei genitori hanno deciso di organizzare questa vacanza, di solito piuttosto scomoda e faticosa, con una bambina di quattro anni al seguito, abbastanza disorganizzati e molto all'arrembaggio. Di quella vacanza ho solo qualche ricordo: una fotografia della me piccolissima con una massa di capelli ricci e indomabili all'inizio della Costa Smeralda, una notte passata a dormire in auto (tutti gli alberghi erano pieni), e l'azzurro. Un mare di un azzurro incredibile. Per anni ho ricordato solo quello.
E poi sono tornata: da ragazza, per le vacanze con gli amici al nord. E poi da trentenne, quando ho capito che di quella terra facevo fatica a fare senza.
Ho condiviso questi viaggi con mia sorella (mia compagna di viaggi preferita, nonché persona del cuore), l'isola ci ha messo tutto quello che ci poteva mettere, et voilà: è nata quella che credo di poter chiamare una storia d'amore. Ogni viaggio, non senza imprevisti e inciampi, mi ha unita sempre di più a quella terra, che insegna forse a essere pronti al cambiamento, a gestire gli imprevisti, a fare con quel che si ha (il vento, il caldo soffocante di alcune giornate agostane, il mare mosso, gli autobus che non passano, le auto a noleggio che soffrono quelle distanze, il nostro corpo non abituato al mare, quello vero). Ma poi, si apre sempre una qualche meraviglia davanti agli occhi: le albe, i tramonti, le giornate in barca, e poi l'azzurro, proprio quello che avevo visto da piccola.
Il 2015 è stato l'anno della vacanza in barca, quando abbiamo scoperto l'isola di Spargi, piccolissima e selvaggia, e abbiamo deciso che passare le nostre giornate a galleggiare su quelle acque, insieme all'equipaggio (mentre tutti gli altri turisti scendevano in spiaggia), sarebbe stato esattamente quello che avremmo voluto fare per i giorni che rimanevano.
Quando, nell'agosto del 2020, mi sono imbarcata sull'aereo per raggiungere mia sorella, che era già là, avevo gli occhi lucidi: il fatto di riuscire a partire, in quell'anno orribile, era già un regalo enorme. E io sono partita per andare a vedere l'azzurro di Spargi, per fare quel bagno: così è stato, e quella sensazione la ricordo ancora molto bene. La gioia indescrivibile (nonostante l'acqua gelida delle nove del mattino), gli occhi luccicanti, il colore del mare. Uso la fotografia di quel bagno come immagine profilo un po' dappertutto da quell'agosto, perché la me di quel momento rappresenta la persona che mi piace essere, che vorrei sempre essere.
Una cosa così:
Incantevole spazio intorno e distanza da viaggiare, nulla di finito, nulla di definitivo. È come la libertà stessa.
David Herbert Lawrence sulla Sardegna
E poi Cagliari.
La prima volta a Cagliari è stata a dicembre 2019, qualche giorno prima della fine dell'anno: un esperimento, perché era la prima volta che viaggiavo da sola, in un periodo dell'anno in cui il mare è un po' bistrattato. Io, però, amavo già il mare d'inverno, la Sardegna e le città: secondo i miei calcoli, non poteva essere poi così male.
Ricordo benissimo la partenza, disastrosa e magnifica allo stesso tempo: viaggio in auto verso Milano in mezzo a una nebbia che si tagliava con il coltello, nell'autostrada vuota delle quattro di notte. Appena arrivata in aeroporto, sconfortata e con gli occhi stanchi, ho pensato di aver avuto una pessima idea, di essere stata una stupida a credere di poter trovare un raggio di sole in quelle giornate, quasi con la voglia di fare inversione e tornare a casa.
Poi il decollo: dopo essere passata attraverso uno strato fitto e denso di bianco (sarà pure un volo pericoloso, pensavo), eccolo lì: un sole grande in mezzo all'azzurro del cielo, che già scaldava il viso attraverso i finestrini, mentre sorridevo e iniziavo a respirare meglio sorvolando il nord della mia isola del cuore. Un sole che non mi ha più abbandonata per i tre giorni successivi.
Atterrata a Cagliari, munita di una Smart e di un bel paio di occhiali scuri, non mi sono più fermata: prima la spiaggia del Poetto, infinita nei suoi otto chilometri di lunghezza. Poi una visita al centro città, tutto in salita (e che panorama da lassù), come per arrivare a toccare il cielo, senza mai perdere d'occhio il mare.
E ancora le passeggiate nei dintorni della Sella del Diavolo (le leggende sulla sua nascita sono molto suggestive, consiglio di leggerle prima di arrivare): c'è un punto, lassù, in cui si è completamente circondati dall'azzurro. Silenzio, il suono delle onde, i gabbiani sopra la testa e quella vista: il momento esatto in cui ho iniziato a pensare che, di quella città, ero già innamorata. Il colpo di fulmine esiste.
A Cagliari sono tornata poi tante altre volte, ed è sempre stata come una porta aperta, sul mondo e anche su me stessa: mi ha fatto provare i viaggi in solitaria, le camminate per andare a vedere l'azzurro dall'alto, la gioia di condividere con mia sorella un luogo del cuore (che è diventato un po' anche il suo); ma anche una porta aperta verso altri luoghi della Sardegna: da lì siamo partite per visitare sia parte della costa est che di quella ovest, spesso anche per cercare di scappare da quei giorni di maestrale incessante che rendono impossibile la vita da spiaggia.
A marzo dello scorso anno, l'ultima volta che sono stata a Cagliari, ho deciso di provare ad aprire un blog, e ho scritto il mio primo piccolo post, davanti a una tazza di caffè fumante, all'alba sulla spiaggia del Poetto e a queste parole:
Un pretesto per tornare bisogna sempre seminarselo dietro, quando si parte.
Alessandro Baricco
Da quel primo post, da quella spiaggia, da quel caffè e da quelle parole sono nate tante nuove conoscenze, che mi hanno portata a scrivere queste righe oggi.
Manca ancora un sogno nel cassetto. Atterrare a Cagliari per poi andare a visitare Carloforte, tappa che ho saltato tantissime volte sempre a causa del maestrale, che nella costa ovest pare essere molto più forte che altrove, e che avrebbe rovinato un po' la mia visita all'isola (anche se la ricerca della perfezione assoluta del viaggio è qualcosa che dovrei superare, perché tanto non esiste).
La mia storia con Carloforte inizia da una pagina di una famosa rivista di viaggi che avevo strappato e attaccato all'armadio, nella mia camera di adolescente. La foto di una scogliera a strapiombo sul blu, che mi ha fatto innamorare. Poi ho cambiato case, vita, sono stata in Sardegna tante volte, ma mai là. Qualche tempo fa, parlando con Sara, lo abbiamo nominato, tutte e due curiose di visitare questa isoletta che tanti dicono assomigliare al paradiso. Ho scelto di parlare della Sardegna e di Cagliari, in questo piccolo grande spazio che Sara mi ha messo a disposizione, anche per questo motivo: che diventino, ancora, una porta aperta su un nuovo viaggio. Magari a Carloforte. Magari insieme.
11 itinerari in un libro: la Sardegna di Michela Murgia
La maggior parte dei miei viaggi è partita da un libro che mi ha fatto venire voglia di partire ed è così anche per la Sardegna. Anche se poi quel viaggio non si fece più, il libro Viaggio in Sardegna di Michela Murgia mi ha permesso di viaggiare in poltrona.
Mi interessa sempre il punto di vista di una persona isolana sulla propria isola, essendo io siciliana e scrivendo spesso di Sicilia, per lavoro e non. So quanto sia difficile comunicarne complessità e sfaccettature, evidenti a noi che ci siamo natə ma non così immediati per chi arriva da altrove. Spesso si finisce per restituirne un'immagine un po' appiattita.
Con questa consapevolezza, ma senza sapere nulla di Sardegna oltre le immagini tipiche (o direi meglio stereotipate), mi sono accostata a questo libro con l'idea di fare un viaggio nella storia, nelle storie e pure nelle contraddizioni dell'isola e non sono rimasta delusa. Il libro ha un impianto tematico più che geografico, anche se tutti gli itinerari proposti sono legati a stretto filo con il territorio. Il sottotitolo svela qualcosa prima ancora di aprirne le pagine, Undici percorsi nell’isola che non si vede.
Si parla per lo più di cose intangibili: tradizioni arcaiche quasi perdute, feste dalle potenti simbologie, musica, letteratura, indipendenza, lingua. Ma anche cibo, pozzi sacri, nuraghi e menhir, murales, miniere, che sono ben più visibili e materiali. Ma al tempo stesso si parla di un'isola che spesso non si vede, letteralmente, perché resta periferica rispetto al paese oppure è rappresentata dal punto di vista di chi vi si accosta per le spiagge, le vacanze, senza andare molto oltre né esplorare le sue profondità che invece qui mi pare, anche se per rapidi scorci, di avere intravisto.
Gita in Grecia: l’isola di Gavdos
In greco si chiama Gavdos, in italiano è nota come Gozzo ed è l’isola più meridionale della Grecia, a sud di Creta. Poco più di uno scoglio nel mare. Ci sono stata con il libro Paura dei barbari di Petar Andonovski, edito da Crocetti con la traduzione di Milena Trajkovska.
Le vicende delle due donne intorno a cui ruota il romanzo avvengono sull'isola remota, simbolo di isolamento sia geografico che interiore, approdo salvifico eppure estraneo per una, prigione per l'altra.
La comunità è scossa dall'arrivo dell'alterità rappresentata da Oksana, Evgenij e Igor in fuga da Černobyl’. Gli abitanti non li capiscono, non solo perché parlano un'altra lingua ma anche perché vivono una vita incomprensibile e vengono da un altrove ignoto.
Oksana qui approda per salvarsi, ma trova ostilità e involontariamente è portatrice di caos. Pinelopi invece è greca e rientra nell'ordine delle cose eppure si sente in catene, straniera in casa sua, senza via di fuga e circondata da un mare impossibile da solcare.
Il libro è una domanda, costantemente riaperta, su identità e alterità, sul significato dell'isolamento e dell'accettazione, su se e come siamo capaci (oppure no) di confrontarci con l’altro da noi e prima ancora con noi stessi.
Ultime dal sito
Cos’è successo su IoViaggioinPoltrona.it:
ho raccontato i miei ultimi Viaggi sonori, con 5 podcast da ascoltare
ho seguito Schopenhauer nel suo viaggio in Italia
ho messo sulla mappa Un anno in Provenza di Peter Mayle
Sono sarda per parte di padre. Per me la Sardegna è sempre stata la nonna e le zie paterne, Cagliari, casa di nonna e qualche rara puntata al Poetto e la vista della Sella del Diavolo, da qualche parte, all'improvviso.
Ci sono stata per la prima volta, solo per scoprire l'isola dei padri, in età adulta, lo scorso anno. Quattro settimane a marzo che mi hanno emozionato tantissimo, mi hanno fatto capire meglio me stessa e mio padre, attraverso la sensazione dell'isolamento dell'isola (per me era stato "ma qui per qualunque cosa bisogna prendere l'aereo, se voglio vedere una mostra a Milano/Torino/Roma devo prendere un aereo, un weekend a Venezia, un aereo. E tutto quello che succede in continente non fa tappa qui", è stato molto strano e bello, allo stesso tempo). Ti scrivo perché il libro di Michela Murgia, che ho letto prima di partire, è stato un nuovo orizzonte. Ho la Sardegna nel cuore, ovviamente e conto di tornarci e starci di nuovo almeno uno-due mesi. Sempre fuori stagione.
Me la sono proprio goduta questa puntata, attraverso le vostre voci e i vostri contributi a ritrarre una terra che conosco pochissimo e che - ne sono certa - amerei.