#28. Cartagine
Di porti, bacini sacri, città perdute, una regina e un racconto che sempre si rinnova
Me lo ricordo come fosse ieri: era una giornata fredda e la luce entrava grigia dalla grande finestra alla mia sinistra quando in classe aprimmo l’Eneide sul libro IV. Era un volume bellissimo, con la copertina rigida, blu, telata.
Di quel giorno ricordo ogni sensazione tattile. Le mani fredde, le pagine tra le dita, la mensola di legno sotto il banco che mi smagliava i collant, il martellare del cuore contro il petto. Stavo leggendo per la prima volta la storia di Didone. Da allora, è rimasta sempre con me.
Oggi andiamo a Cartagine. Ho scritto questa puntata ascoltando Franco Battiato e la sua Delenda Cartagho. Vorrei dirti che ho sul tavolo un calice finemente screziato dentro cui fruscia un vino (cit.), ma sto bevendo della comune acqua.
Un luogo reale: il porto di Cartagine
Ho sempre immaginato i porti come luoghi di apertura verso l’altrove più che come ricoveri sicuri dal mare. Sono entrambe le cose, ma a me piace più l’idea di andare che quella di tornare.
Fondata nel IX secolo a.C. come avamposto commerciale marittimo sulla costa nordoccidentale dell’Africa, nell’attuale Tunisia, Cartagine guerreggiò a lungo con Roma, che la rase al suolo nel 146 a.C. Quel che ne resta è ormai parte dei sobborghi di Tunisi.
Attraversare la vasta distesa di rovine di pietra dorata che si stagliano contro il mare lascia solo intuire la grandezza dell’antica Cartagine. Della vitalità della potente città d’un tempo non rimane che silenzio rotto dal suono del vento. Eppure riesco a immaginarla facilmente perché ho ancora davanti agli occhi la Cartagine ricostruita in un disegno visto su un libro di storia antica. Tentavo di percorrerne con gli occhi le vie, di cogliere l’insieme, ma lo sguardo cadeva sempre su quel cerchio azzurro con un isolotto al centro: il porto.
In realtà i porti erano due, quello commerciale e un altro, segreto, tondo, quasi completamente chiuso, con un isolotto al centro che ospitava la sede dell’Ammiragliato. La flotta di guerra così era al sicuro e riparata persino dagli sguardi nemici. Poteva accogliere fino a 220 navi.
Ogni porto fenicio aveva anche un kothon, un bacino idrico che gli archeologi non hanno ancora capito a cosa servisse: forse un ricovero per la riparazione delle navi, forse un bacino legato a usi sacri. Questa seconda ipotesi sembra avere sempre più forza ed è anche quella che mi piace di più, per quanto mi renda conto che l’archeologia non tiene in alcun conto le mie preferenze narrative.
Un luogo immaginario: il kothon di Mozia
Posso giurare che Mozia è esistita per davvero perché ci sono stata, ma quello che resta oggi è un’idea lontana dell’insediamento punico che fu. Anche qui i fenici costruirono un kothon, una piscina sacra con un preciso orientamento regolato dai punti cardinali. Nei pressi sorgeva un tempio con l’ingresso volto verso l’area sacra. Sul lato nord è stata trovata inoltre una polla d’acqua dolce.
Di tutti i misteri di Mozia, che ho scoperto in un rovente pomeriggio d’estate, questo è quello che più mi ha affascinato. Inizialmente si riteneva fosse un porto, ma studi più recenti hanno stabilito che fosse di un bacino artificiale ad uso cultuale. Quale divinità si venerava qui, quali miti si officiavano, in che momenti, a quali scopi?
Alcuni studiosi hanno individuato in Baal il dio a cui era dedicato il tempio, assimilabile al Crono greco e al Saturno romano, signore del vento e della pioggia. Ho immaginato più volte come doveva apparire questo luogo secoli fa, con la statua del dio al centro del bacino e i sacerdoti in tuniche porpora, cinti d’oro, che si muovevano intorno all’acqua officiando il rito.
Quel pomeriggio ho dovuto correre per prendere l’ultimo battello che mi avrebbe riportata sulla costa siciliana e stava già per staccarsi dal molo. Il sole iniziava a tramontare, la laguna diventava di fuoco. Stavo guardando lo stesso mare che i fenici, millenni prima, avevano visto approdando qui.
Itinerario tra libri, film e podcast
Una mattina di un’altra estate scendevo verso il porto turistico con i pattini in spalla. Era l’alba, il sole si era appena affacciato colorando il mare di rosa e il cielo di giallo. Ascoltavo il podcast Vive! con storie di donne che avrebbero potuto avere un altro destino rispetto a quello tramandato. Avevo appena terminato la storia di Ofelia. Mentre raggiungevo l’acqua iniziò la puntata dedicata a Didone, la regina di Cartagine innamorata di Enea che, abbandonata, si gettò sulla sua spada per morire.
Dovetti fermarmi. I pattini avrebbero aspettato. Mi sedetti sull’orlo del molo guardando il sole alzarsi nel cielo e ascoltando Didone raccontare la sua storia, con la sua voce, finalmente libera di dire chi era stata davvero, chi avrebbe potuto diventare. La voce era di Federica Fracassi, le parole di Alessandra Sarchi.
Un punto di vista diverso su Didone e la sua sorte lo hanno offerto anche le Nemesiache, gruppo femminista nato nel 1970 che tra le altre cose ha fondato la Rassegna di Cinema Femminista allo scopo di cambiare lo sguardo sulle storie delle donne. Tra le produzioni delle Nemesiache c’è anche un film su Didone ambientato nei Campi Flegrei. Si intitola Didone non è morta. A un certo punto incontra pure la Sibilla!
Torna l’acqua nel racconto che fa Marilena Lucente nella Trilogia delle donne dell'acqua. Medea, Penelope, Didone, tre prose su altrettante donne e il loro rapporto con il mare.
Anche Marilù Oliva ha scelto sguardo e voce di Didone per raccontare la storia di Virgilio da un punto di vista differente nel romanzo L’Eneide di Didone. Né è la prima volta che la letteratura frequenta la regina cartaginese. L’hanno riletta (e ridetta) tra gli altri Ovidio, Boccaccio, Marlowe, Metastasio. Pure Brodskij. Pure Ungaretti, di cui ti lascio alcuni versi, frammenti di un’opera mai finita. Se li ripeti mentre sei tra le rovine di Cartagine sono una formula magica che riporta in vita il passato.
Ora il vento s’è fatto silenzioso
E silenzioso mare; Tutto tace; ma grido
Il grido, solo, del mio cuore,
Del cuore che brucia
Con una canzone ho iniziato e con un’altra chiudo, Dido’s Lament di Annie Lennox. Si tratta della rivisitazione dell’aria omonima di Henry Purcell che chiude l’opera Dido and Æneas. Mi strazia il cuore. Pure a te?
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Io a Mozia ci ho scavato un'estate di tanti anni fa con l'università per prendere i crediti di tirocinio. Un'esperienza incredibile, ancora oggi ho amici che continuano a lavorare lì. Che bei ricordi che mi hai sbloccato :)
Mi hai ricordato un libro letto tempo fa, dove la figura di Didone è molto presente: Soffiano sui nodi di Ece Temelkuran. E quanto vorrei andare a Mozia e vedere quel che resta di Cartagine.