Ho avuto un’estate piena zeppa, ma non di viaggi. Il mio tempo è stato risucchiato da vicende e persone e le energie residue sono finite nell’allenamento per la maratona e dentro Kalò Dromo, che ha continuato a uscire settimanalmente per raccontare quel viaggio verso Atene.
Si sono fermati il sito, il podcast e questa newsletter. Poi è successo che, qualche giorno fa, sono tornata al paese di mia nonna. Non è lontano da casa mia ma da quando nonna non c’è più è capitato di tornarci solo di passaggio, con altre persone o per fare qualcosa di specifico. Non ci ero mai tornata da sola, mai mi ero concessa di immergermi nei ricordi priva di schermi. Fa ancora male, sì. L’assenza è una voragine che spacca il cuore. Ma ora è un dolore nostalgico, venato di dolcezza. Da Milo mancano tutte le persone che lo rendevano cos’era per me ma è ancora lì, è ancora lui, lo riconosco e lo amo come allora.
A ogni curva mi investono ricordi a decine. Ogni muretto, casa, albero e pietra ricorda la mia infanzia e quelle lunghe estati dalla nonna, quando restavamo a dormire lì per un mese, col gelsomino alla finestra che addolciva l’aria fresca della sera. Eravamo tantissimi bambini, mezza dozzina di zie, i grilli tra le belle di notte, il bosco dietro casa, il ciliegio davanti alla porta, la veranda piena di sedie per chi passava e si fermava un po’ e le tazzine del caffè si accumulavano nel lavello. Ho deciso che a Milo provo a portarci anche te, tra un giro per le viette e un tuffo nei miei ricordi.
Un luogo reale: una passeggiata a Milo
Tornare a Milo dopo tanto tempo ha significato scoprire con più evidenza quanto è cambiato con gli anni. Ora è più accogliente, più frequentato, anche più pettinato, benché fosse pieno della sabbia vulcanica che nelle ultime settimane ha ricoperto i paesi etnei.
Vicino alla macelleria storica di Turi Sciutu adesso c’è un negozietto di ceramiche. A poche porte di distanza un negozio di abbigliamento. Non c’era mai stato un negozio di abbigliamento a Milo, per comprare qualcosa bisognava andare a Zafferana oppure a Giarre o aspettare il rappresentante che passava ogni venerdì con un catalogo da cui scegliere cosa acquistare.
Sul piccolo corso c’è un’agenzia che organizza escursioni sull’Etna in quad. Ma all’angolo c’è ancora il Bar del Sole dove si compravano i pasticcini della domenica e sulla piazza Belvedere ci sono sempre gli anziani che giocano a carte e i bambini che rincorrono un pallone.
Di fronte alla piazza c’è la chiesa di Sant’Andrea dove si sono sposati i miei nonni, i miei genitori e pure mio fratello. Dietro la chiesa crescono ancora le rose, ci sono le scale che portano al comune e si staglia il vulcano. Quando ero bambina la festa di Sant’Andrea era un evento grande e per chi vive qui lo è tuttora. Mentre cammino per le strade noto che ci sono le luminarie, la festa è stata solo pochi giorni prima. Era l’unica occasione in cui ci fosse permesso andare in piazza da soli, con i cugini più grandi e mille lire in tasca per comprare calia e simenza (sai cos’è? Ceci tostati e semi di zucca salati che si trovano in tutte le feste di paese).
Mi affaccio dal Belvedere e lascio correre gli occhi fino al mare, in fondo a sinistra scorgo Taormina. Oggi c’è foschia per via dell’umidità ma da qui nei giorni tersi si vedono anche lo Stretto e la Calabria. Poco sotto la piazza, che quando ero piccola era tutto campagna selvatica, oggi c’è un parco pubblico collegato alla piazza da un ponte di legno che scavalca la strada.
Poco oltre c’è il Vecchio Mulino, uno spazio per eventi all’aperto dove bere e ascoltare musica. Il nome viene dal vero mulino che si trovava qui sin dall’epoca bizantina, poi ricostruito quando Milo fu fondata a opera di Giovanni d’Aragona che nel 1340 fece costruire la prima chiesa. Qui passava l’estate e nel 1348 venne per sfuggire alla peste che imperversava a Catania (inutilmente, perché ne morì). La piazza di Milo è intitolata a lui, anche se nessuno la chiama così.
Il mulino è rimasto in abbandono per secoli finché non è stato riqualificato di recente. Per me ha un altro significato. Quando arrivavamo a questo bivio, con l’edicola della Madonna delle Grazie al centro (è ancora lì), sapevamo che casa di nonna era ormai vicina. Iniziavamo a contare le curve. Erano sei.
Mentre il sole tramonta dietro l’Etna faccio una passeggiata nel parco, e pazienza se mi riempio i sandali di sabbia. Mi affaccio al teatro all’aperto intitolato a Lucio Dalla che aveva preso casa a Milo pure lui, come Battiato. Sono ritratti sulla piazza, Franco e Lucio, due statue e un pianoforte. Entrambi amarono questo borgo e vi trovarono rifugio.
All’imbrunire raggiungo l’abbeveratoio e mi fermo sulla piccola piazzetta ad ascoltare lo scroscio dell’acqua. Da qui intravedo la biblioteca, un edificio rosa con il tetto a lucernario. Mi ci portava zia Anna, mi piaceva tantissimo quella sala piena di luce e di libri.
A casa di nonna non ho il coraggio di tornare, non ancora. So che mi farà male vederla vuota, chiusa, senza vita. Senza nonna. Ci passerò domattina, forse, durante la mia corsa all’alba nel bosco. Quel bosco.
Un luogo immaginario: il castagneto di Praino
Mi sveglio all’alba ma di correre non ho nessuna voglia. Le vie sono ancora piene di sabbia lavica sputacchiata dall’Etna nei giorni precedenti, le auto che passano sollevano polveroni, si scivola e la sabbia entra nelle scarpe. Però ho voglia di arrivare a Praino.
Praino è una piccola frazione di Milo, a un paio di km dal centro, circondata da un castagneto e da vigneti, con l’Etna che sorveglia le case e la sua minuscola chiesetta in mezzo alla campagna. Si trova un po’ oltre Villa Grazia, che qui tutti conoscono come ‘a villa da’ barunissa. Era la villa della baronessa da cui Franco Battiato la acquistò dedicandola alla mamma Grazia.
La casa è silenziosa, ma lo era anche quando ci viveva Battiato e nonna, che abitava lì vicino, ci intimava di non fare chiasso per non disturbare u maistru ca sturia (il maestro che studia). Chiusa è anche la chiesetta. Risale al XVII secolo e non sono mai riuscita a entrarci. Non è più in uso da decenni.
Anche casa di nonna è chiusa e silenziosa. Il ciliegio è morto, la veranda ha i vetri opachi e le porte sono scrostate. Mi fa male vederla così ma sovrappongo i miei ricordi a quello che vedo e diventa un luogo dell’immaginazione. In un altro tempo qui c’è stata vita. L’ho vissuta ma appartiene già a un’altra dimensione. Mi guardo intorno, sono sola. Mi dico a voce alta: ero felice e non lo sapevo. Ma forse è la felicità di cui non ti accorgi quella più vera.
Imbocco il cortile ed entro nel castagneto. Oggi è quasi tutto recintato. Forse era già privato 40 anni fa ma allora nessuno recintava niente, qui. Entravamo nel bosco ed era tutto bosco, non faceva differenza che fosse il pezzo di nonna o quello della signora Carmela.
Qui d’estate veniva a correrci mio padre. Lo vedevo tornare pieno di gioia e dicevo anch’io, da grande, correrò nel castagneto! Non l’ho mai fatto e non so perché. Ora non posso più, ogni poche centinaia di metri trovo una rete o un cancello e devo tornare indietro, aggirare, uscire in strada per costeggiarne un tratto.
Anche questo diventa luogo dell’immaginazione. Ricordo e rivedo gli scoiattoli che velocissimi si arrampicavano sugli alberi dopo aver rubato una castagna a noi bambini che facevamo a gara per raccoglierle. La sera le arrostivamo sulla stufa a legna.
Ricordo il profumo del bosco dopo la pioggia, nelle domeniche d’inverno, e il divieto assoluto di infilarci tra gli alberi zuppi e una voglia pazza di scappare di nascosto e andarci lo stesso. Le scarpe bagnate ci tradivano e le mamme sbraitavano, noi fingevamo compunzione ma eravamo raggianti.
Ricordo zio Turiddu che mi portava sulle spalle, con le trecce disfatte e un paio di pantaloncini gialli, ero appena caduta e avevo le ginocchia sbucciate, ma non piangevo. Mi tenevo alla sua barba bionda, era morbida, l’unica che non spinava.
Ricordo le corone fatte con le foglie di castagno, le ciliegie in tasca e le spedizioni della banda di cugini nella “grotta” che era solo un breve incavo nella roccia lavica ma a noi pareva così arcano.
Ricordo una discesa pietrosa che andava fatta sempre di corsa e chi cadeva pagava pegno, doveva risalire e farla da capo. Lassù in cima zio Mario teneva la cavalla che ci guardava correre. Secondo noi moriva dalla voglia farlo pure lei. Tramavamo di liberarla ma non trovammo mai il coraggio.
Sul vulcano con i libri
Milo per me significa nonna, infanzia, ma pure Etna. Da qui sono partita per le mie prime escursioni sul vulcano, su cui non ho mai smesso di arrampicarmi da allora. Le prime spedizioni le facevo con papà, andavamo a funghi o a fare un pic nic nei boschi. Poi ho cominciato a esplorare i sentieri con gli amici. Adesso ci torno con mio fratello, con il mio compagno. È anche il mio orizzonte quotidiano, la prima cosa che guardo quando mi alzo la mattina. Perciò ho scelto alcuni libri che la raccontano. La, sì, perché l’Etna è fimmina.
Voglio cominciare con un volumetto recentissimo, uscito questa estate. Si chiama Etna. La lingua del fuoco. È il racconto sentimentale di un viaggio intorno al vulcano accaduto davvero nel 2019 ma dentro ci sono altre storie, luoghi, persone, epoche. Ci sono anche io. C’è pure mia nonna. Lo ha scritto la mia amica Nadia Terranova, le foto sono di Stefano Graziani.
Alla fine del libro Nadia ne cita un altro, Catasto magico di Maria Corti, un imprescindibile per esplorare l’Etna letteraria. Io lo lessi anni fa in una vecchia edizione Einaudi ma di recente le bravissime editrici di Nous lo hanno ripubblicato.
Un altro amico etneo, Andrea Giuseppe Cerra, ha curato insieme Fulvia Toscano una raccolta di storie legate al vulcano. Si intitola Il vulcano che pensa, è un viaggio alla ricerca del genius loci della nostra muntagna. Ne avevo scritto anche qui.
Per una guida immaginifica del vulcano c’è Etna di Rosario Battiato che ha già raccontato per lo stesso editore (con le illustrazioni di Chiara Nott) anche le Creature fantastiche di Sicilia e il Bestiario contemporaneo di Sicilia.
Ho scoperto pochi giorni fa, ancora tramite Nadia, Sciara di Marina Mongiovì, un’autrice siciliana che ha raccontato la vita sulla terra nera del vulcano, un po’ asfissiante, un po’ onirica, tra luci e ombre, maledizioni e salvezze.
Per finire ti lascio con un libro a me particolarmente caro perché racconta l’Etna attraverso la memoria delle persone che l’hanno abitata. Alcune di queste persone le ho conosciute io o le conosceva la mia famiglia. Il titolo è La memoria del vulcano, l’autore è Giuseppe Riggio.
I link ai libri di questa sezione sono affiliati. Se decidi di acquistarne uno io ricevo una piccola commissione mentre per te il prezzo è invariato. Uso i ricavi per acquistare altri libri da raccontarti e alimentare i viaggi in poltrona. Ma se decidi di andare nella libreria di quartiere sono contenta lo stesso.
Tutte le foto di questo numero sono scattate da me. Le persone di cui si vedono i visi hanno dato il loro permesso.
Mi sembrava di essere lì con te mentre raccontavi. Sei riuscita a trasportami a Milo e un po' anche nel tuo cuore e un po' anche alla mia di infanzia con i nonni. È stato un bellissimo viaggio. Grazie Sara ❤️
Che tenerezza, Sara, grazie per aver condiviso questi ricordi. Nemmeno io sono più entrata a casa di mia nonna materna, ma ho ancora vividi in mente tutti gli angoli, i profumi e le penombre della casa e della strada intorno. 💚